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Il “tempo” della politica e i meccanismi di riproduzione sociale

pubblichiamo questo testo di Giorgio Ferrari, scritto nel novembre 1982, in avvicninamento alla presentazione del suo "Autonomi vol.4" giovedì 4 maggio a l'università la Sapienza

XII

Nulla può erigersi a difesa contro la falce del tempo

se non la prole che sappia sfidarla quand'essa ci

toglierà di quaggiù.

(Shakespeare - Sonetti)

Lungo sarebbe discutere, e inconcludente, degli effetti del tempo sui pensieri e sulle azioni degli uomini, se non fossimo capaci, in qualche modo, di fissare i contorni entro cui misurare le nostre esperienze.


Ma quali prendere? E in quale ambito o a quale sistema di valori vanno esse riferite?


Oggi, che il desiderio di discutere, o ridiscutere, di tutto è assai diffuso occorre, a maggior ragione, uno sforzo analitico diverso nei fondamenti e nella struttura per comprendere la realtà circostante oltre il suo aspetto di evidenza fattuale; perché non è tanto dalla descrizione della realtà, o dalla sua assunzione tout-court, che nascono i problemi, quanto nell'individuare in essa ciò che ha senso per noi e quindi ciò che in qualche modo sorprende, nell'insieme dei fatti, la nostra attenzione.


Fatti o parole, scienza o filosofia, teoria o prassi, esemplificano spesso l'umano dilemma tra il comprendere il mondo e l'agire su di esso come se l'una cosa escludesse l'altra in virtù di una consapevolezza a priori dell'efficacia di una tesi, ovvero dell'inefficacia dell'altra: non c'è azione che tenga senza prima aver compreso e, viceversa, è possibile comprendere solo dopo aver prodotto dei risultati.


Non sarò io a tentare una soluzione del dilemma né a sostenere la tesi scontata di un'armoniosa sussistenza dei due termini della questione, perché sia il divorzio tra scienza e filosofia, ormai ratificato fin dal secolo scorso, sia quello tutt'ora dibattuto, tra prassi e teoria, hanno eluso il problema della consequenzialità temporale dell'agire e del comprendere. In altre parole si è accettato e perpetuato fino a noi una sorta di principio di causa ed effetto in modo primordiale, senza tener conto cioè di ciò che il pensiero scientifico con Einstein e quello filosofico con Engels e Lenin hanno prodotto sul piano metodologico, non tanto per una definitiva soluzione del dilemma quanto per una sua reale comprensione, grazie soprattutto a una diversa interpretazione del tempo in rapporto al verificarsi degli eventi.


Engels, e più ancora Lenin, sotto l'esigenza di contrastare la concezione idealistica del mondo data dal kantismo, dove il concetto di spazio e tempo è stato sempre aprioristico e assoluto, hanno

fortemente contribuito a confutare le concezioni della fisica classica giunta, attraverso il meccanicismo, fino all'inizio di questo secolo.



"Le rappresentazioni umane dello spazio e del tempo sono relative, ma, (…) queste rappresentazioni relative procedono, nel loro sviluppo in direzione della verità assoluta e si avvicinano ad essa. La variabilità delle rappresentazioni umane dello spazio e del tempo non confuta la realtà obiettiva dell'uno e dell'altro, più di quanto il variare delle nostre conoscenze scientifiche sulla struttura e sulla forma del movimento della materia non confuta la realtà obiettiva del mondo esterno. (1)

Così Lenin in Materialismo e Empiriocriticismo pone la questione del rapporto tra la realtà oggettiva dello spazio e del tempo e le nostre concezioni su di esso, evidenziando la dialettica tanto più implicita di questo rapporto, quanto più la tendenza alla ricerca della verità assoluta approssima le forme reali dell'essere noi stessi i soggetti in movimento (dialettico) col mondo esterno.


Quale dunque il nuovo scenario prospettato al succedersi degli eventi materiali? Non più le proprietà date una volta per tutte, quindi eterne, né tantomeno quelle attribuite a priori dal dogma kantiano, ma una realtà mutevole dove la finzione del tempo cronologico - che scorre pur essendo considerato una grandezza assoluta- e quella dello spazio, considerato come una perfezione assoluta che rimaneva immobile al di sopra dei conflitti della materia e dell'energia, scompaiono da questo scenario inconoscibile e fisso per far posto alla concezione di un "mondo" quadridimensionale prospettato da Einstein: lo spazio indica alla materia come muoversi e la materia, a sua volta, indica allo spazio come curvarsi in un continuo movimento dialettico (di azione-reazione) dove la materia obbedisce agli imperativi dello spazio-tempo, e lo spazio-tempo è curvato dalla materia.


Nel quadro di questa teoria sono superati, ma non negati -questo è ciò che ha senso per noi- i principi della fisica classica, per cui ciò che era considerato assoluto si è dimostrato relativo, cioè vero entro certi limiti in quanto caso particolare di una verità più profonda verso cui ci proietta la fisica relativistica.


Ancora una volta dunque la corsa contro il tempo nell'affannosa ricerca della verità, trova i suoi punti fermi nel pensiero dialettico, in ciò che di dialettico contiene anche la teoria della relatività senza per questo confonderlo col relativismo:

"La dialettica, come già spiegava Hegel, comprende in sé gli elementi del relativismo, della negazione, dello scetticismo, ma non si riduce al relativismo. La dialettica di Marx e di Engels contiene in sé incontestabilmente il relativismo, ma non si riduce ad esso, ammette cioè la relatività di tutte le nostre conoscenze, non nel senso della negazione della verità obiettiva, ma nel senso della relatività storica dei limiti dell’approssimazione delle nostre conoscenze a questa verità”. (2)


L’esistenza di un mondo “relativo” si misura col metro delle nostre azioni, la loro appartenenza a questo mondo si misura col metro della dialettica. La proiezione fantastica della nostra mente, rinchiusa nei limiti ristretti della finzione cronologica del tempo, può essere superata da una realtà in movimento perenne che nella relativizzazione del tempo (e dello spazio) ci fornisce la nuova dimensione del dilemma tra capire il mondo e agire su di esso: non più attesa passiva dell’evento che rivoluzionerà lo stato di cose presenti, non più statica concezione della trasformazione sociale, ma influenza reciproca e dinamica degli avvenimenti; movimento di ricerca soggettiva in dialettica con quanto già modificato dallo stato di cose presenti e che solo la mancata “appropriazione” del tempo e della memoria, intesi come elementi conoscitivi del processo storico di modificazione della realtà, ci impedisce di comprendere.


Non a caso la memoria collettiva ha costituito un’importante posta in gioco nella lotta per il potere condotta dalle classi sociali. Impadronirsi della memoria è una delle massime preoccupazioni delle classi, dei gruppi, degli individui che hanno dominato e dominano i meccanismi di manipolazione della memoria collettiva, per questo lo studio della memoria sociale costituisce uno dei modi di affrontare i problemi del tempo in rapporto a cui la memoria si trova ora innanzi e ora indietro.


LIX

Se nulla c’ è di nuovo, e quel che è, è già stato prima, oh, quanto non s’inganna il nostro cervello che, mentre s’affanna ad inventar qualcosa sopporta a vuoto la seconda gravidanza d’un figliolo già nato.

(Shakespeare-Sonetti)



Il tempo che ci appartiene dunque, in quanto compagni di una stessa fede, o è già passato o deve ancora venire; mai è quello presente, se non quando è l’attesa a farci muovere in una dimensione diversa dove è lo spazio-tempo, e non la risultante cronologica degli eventi, a guidare le nostre azioni.


Spazio sociale e tempo politico sono gli scenari naturali che fanno da sfondo al succedersi degli eventi a cui partecipiamo di volta in volta, come oggetti o soggetti. Ma il problema è, a questo punto, quello di assumere la nostra partecipazione a qualsiasi evento, sempre in senso relativo, perché relativa è in definitiva la natura stessa entro cui ci muoviamo; né mai solo politica, né mai solo sociale per cui oggettività e soggettività sono legate da una stretta solidarietà ad una dimensione che è appunto spazio-temporale.


Parafrasando Einstein potremmo dire che se anche il nostro agire dovesse cessare, rimarrebbero ancora spazio e tempo come una specie di palcoscenico per gli eventi umani.


Il tempo dell’attesa dunque si pone come azione di ricerca politica tra eventi passati e futuri, che pure già conosciamo e possiamo descrivere, ma che la finzione del tempo ci impedisce di dimostrare: l’evento futuro, anche se certo, sarà credibile solo quando sarà passato. Ma nel frattempo, ovvero nell’attesa, la ricerca serve a rimuovere la finzione insita nei rapporti sociali, che è ancora una volta finzione cronologica del succedersi degli eventi secondo una sequenza temporale che offusca le dimensioni reali del principio di causa ed effetto: prima la produzione poi il consumo, prima il lavoro poi il salario, il cibo, il divertimento e tutto ciò che viene compreso nei bisogni necessari alla riproduzione sociale, in cui il tempo è fattore discriminante per i produttori e discriminato per la produzione in virtù di rapporti sociali determinati che riducono la vita stessa a semplice meccanismo di produzione di ricchezza, dal momento che “tutto lo sviluppo della ricchezza si basa sulla creazione di tempo disponibile”.(3)


E dunque se la produzione sociale è presupposta, in qualunque forma essa si presenti, ciò che rimane determinante è il tempo della sua riproduzione inteso come il minimo intervallo necessario a ricreare i presupposti materiali e spirituali della vita stessa.


Più questo intervallo diminuisce più è possibile liberare la ricchezza sociale dai suoi vincoli di riproduzione e dimostrare che il succedersi degli eventi –lavorare, mangiare, dormire, divertirsi- può essere liberato dai vincoli dei rapporti di produzione, se il metodo usato in questa ricerca è quello di una funzione continua che non ha limiti nel tempo, ma solo in ciò che si oppone a che cultura e politica si liberino proprio da una meccanica cognizione del tempo.


La cultura messianica, ad esempio, è un’attesa senza ricerca non perché sia continua o discontinua, semplicemente perché non ha metodo. Ciononostante il messianesimo, che gli era stato istillato dalla cultura giudaico-cristiana, indusse Marx –che peraltro, come rileva Bloch, segnò, con la critica dell’economia politica, il novum (cioè il metodo) da cui non sarà mai più possibile prescindere- a profetare il passaggio dal regno della necessità al regno della libertà.


Mao s’avvide di questo elemento “messianico” marxiano e, con saggezza tutta cinese, vi aggiunse un attributo determinante, “continuo”. L’obiettivo, dice così Mao, dev’essere il continuo passaggio -fino all’infinito- dal regno della necessità al regno della libertà, ovvero la continuità della politica e non il suo inverso –la politica della continuità- che è ancora una volta tempo di attesa senza ricerca.


Ciò significa che il passaggio dal regno della necessità al regno della libertà deve esso stesso essere liberato dall’attesa che si compia l’intero arco dello sviluppo delle forze produttive, che il tempo ha ormai cristallizzato in una “speranza” (questa sì messianica!) a cui la politica della continuità ha dato dimensione perenne. Se è vero che il regno della libertà comincia solo al di là del regno della produzione materiale, allora il passaggio dall’uno all’altro non può ricondursi sotto il dominio del tempo; non deve esserci un prima né un dopo né un quando, ma solo l’imperativo, in ogni grado dello sviluppo del capitale, di liberare il lavoro dallo sfruttamento e liberare il tempo della riproduzione sociale dalla necessità del lavoro.


Ma la fine della produzione materiale, lo sviluppo ultimo del capitale fisso, unito a un grado di produttività tale per cui “la società possa attendere; che possa sottrarre una gran parte della ricchezza prodotta sia al godimento sia alla produzione destinata al godimento immediato, per impiegare questa parte ai fini di un lavoro non immediatamente produttivo. Ciò richiede un alto livello della produttività già raggiunta e del relativo eccedente, e precisamente un livello tale che sia direttamente proporzionale alla trasformazione del capitale circolante in capitale fisso”,(4) costituisce un atteggiamento passivo , un’ipotesi ancorata a una dimensione “euclidea” della politica dove lo spazio e il tempo rimangono inerti di fronte allo sviluppo di una forza sociale (il capitale) che si modella sullo sviluppo della scienza:

”Nella misura in cui si sviluppa la grande industria, la creazione della ricchezza reale viene a dipendere meno dal tempo di lavoro e dalla quantità di lavoro impiegato che dalla potenza degli agenti che vengono messi in moto durante il tempo di lavoro, e che a sua volta non è in rapporto al tempo di lavoro immediato che costa loro la produzione, ma dipende invece dallo stato generale della scienza e dal progresso della tecnologia, dalla applicazione di questa scienza alla produzione.” (5)

“Il lavoro non si presenta più tanto come incluso nel processo produttivo, ma è piuttosto l’uomo che si pone in rapporto al processo di produzione come sorvegliante e regolatore”.(6)


Questo scenario, su cui troneggia la grande industria, ha per sfondo una società dove la produzione è ancora collocata in uno spazio e in un tempo circoscritti e omogenei dal punto di vista dello sviluppo capitalistico. Una società dove il lavoro non produttivo è garantito (ovvero pagato) da un’eccedenza di pluslavoro produttivo tale per cui il capitale può ridistribuirne la parte sufficiente a mantenere in vita l’esercito di riserva della forza lavoro, senza per questo mancare alla sua missione storica di “civilizzare” il mondo con i suoi rapporti sociali e tutto ciò grazie al progresso della tecnologia e all’applicazione della scienza alla produzione.


E’ qui che si rivela l’assolutizzazione del concetto di sviluppo, nel senso di un’interpretazione comunque positiva rispetto a quella che Marx aveva posto in termini contraddittori, specificando la natura “necessaria” ma non “sufficiente” del processo capitalistico e in particolare dello sviluppo delle forze produttive dovuto all’applicazione della scienza.




Tutti gli uomini commettono errori, ed io per primo col venir giustificando i tuoi mediante quei paragoni, e corrompendo me stesso cercando di palliare le tue colpe, e trovando per i tuoi peccati scuse più grandi che non siano i peccati stessi.

(Shakspeare-Sonetti)




La prima conseguenza di ciò è l’ipostatizzazione di alcuni presupposti dell’analisi marxiana verso “lo sviluppo dell’individuo sociale che si presenta come il grande pilone di sostegno della produzione e della ricchezza. Il furto del tempo di lavoro altrui su cui poggia la ricchezza odierna, appare base miserabile rispetto a questa nuova base che si è sviluppata nel frattempo e che è stata creata dalla grande industria. Non appena il lavoro in forma immediata ha cessato di essere la sua misura, e quindi il valore di scambio deve cessare di essere (la misura) del valore d’uso”. (7)


Non c’è correlazione tra l’attuale dimensione spazio-temporale dello sviluppo capitalistico e quella relativa alla formulazione di queste analisi, se non nel concetto fondamentale del tempo e dell’appropriazione totale e sconvolgente fattane dal capitalismo. Il modo di produzione capitalistico si è talmente dilatato nello spazio e talmente concentrato nel tempo, che non solo la ricchezza prodotta è ancora fonte di lavoro immediato e il pluslavoro della massa è fonte della ricchezza generale, ma lo sono tanto di più quanto più aumenta la misura del valore d’uso attraverso il valore di scambio, perché l’astrazione dello scambio dai rapporti sociali è tanto più spinta quanto più lo è l’astrazione del capitale (e soprattutto del capitale finanziario) dai processi produttivi, grazie ad una strutturazione internazionale del lavoro che nel suo insieme non è stata ancora affrontata dal pensiero marxista.


Le Aree di Libera Produzione (ALP, o altrimenti dette Free Production Area o Free Zone) e le fabbriche che producono direttamente per il mercato mondiale, ad esempio, rappresentano elementi di riflessione, più che per lo sviluppo del capitalismo, per gli interrogativi che essi pongono all’analisi marxista, dal momento che:


  • le fabbriche che producono direttamente per il mercato mondiale sono inserite in un sistema finanziario e produttivo il cui comando è totalmente esterno a qualsiasi forma di controllo statale o sindacale, nazionale o internazionale.


  • La forza lavoro impiegata in queste fabbriche non è necessariamente riferibile o inquadrabile nelle imprese multinazionali in quanto la produzione di tali fabbriche è del tutto indipendente dalla scala di grandezza dell’impresa.


  • Il plusvalore prodotto non è a sua volta inquadrabile, come tale, nel processo di trasformazione del capitale circolante in capitale fisso, dal momento che esso, più che a un aumento di produttività, è dovuto a un aumento dell’intensificazione del lavoro.


  • L’intensificazione del lavoro è ottenuta, in questi casi, con un grado di meccanizzazione sensibilmente inferiore a quello esistente nei paesi industrializzati per lo stesso tipo di lavorazioni, e dunque si traduce, quasi esclusivamente, in aumento della fatica.


  • I salari pagati nelle ALP che producono direttamente per il mercato mondiale sono spesso insufficienti a garantire la stessa riproduzione sociale.


Il concetto di mercato mondiale qui richiamato è qualcosa di più della “situazione di fatto” a cui l’economia mondiale, in questi ultimi anni, attribuisce la funzione di referente per le singole aeree geografiche di produzione. Quanto all’intensificazione del lavoro, cosa diversa dalla produttività, è così descritta da Marx:



”Questo comprimere una massa maggiore di lavoro entro un dato periodo di tempo conta ora per quello che è, cioè per una maggiore quantità di lavoro. A fianco della misura del tempo di lavoro quale “grandezza estesa” si presenta ora la misura del suo grado di condensazione. Adesso l’ora più intensa (….) contiene tanto lavoro ossia forza-lavoro spesa quanto l’ora più porosa.

Il suo prodotto ha quindi lo stesso valore o un valore maggiore di quello (dell’ora più porosa)”. (8)


Sebbene questa intuizione di Marx faccia intravedere che il rapporto tra il tempo di lavoro e il grado della sua condensazione, ha implicazioni sul valore stesso del prodotto (e dunque su tutta l’analisi e le conseguenze della legge del valore), essa non è stata mai sufficientemente ripresa soprattutto alla luce dell’ultimissimo sviluppo del capitale.

Il processo con cui il valore prodotto in un’ora si accresce, ovvero l’intensificazione del lavoro, ha infatti un ruolo fondamentale, tanto nell’accelerazione che nello sviluppo capitalistico complessivo visto sia nei suoi aspetti dimensionali, sia nel suo significato profondo di affermazione del capitale come forza sociale.


“In pratica è estremamente difficile distinguere un’intensificazione del lavoro da un aumento della produttività, quanto meno per mezzo di un indicatore “oggettivo”. In primo luogo, esse procedono assieme; in moltissimi casi il lavoro è intensificato con una ulteriore meccanizzazione che ne accresce contemporaneamente la produttività; ed è sempre difficile distinguere in pratica tra due processi che si muovono insieme con risultati apparentemente identici. In secondo luogo, un’intensificazione del lavoro mostrerà un aumento della produttività nella misura in cui uno dei suoi risultati è un aumento della quota di produzione fisica per unità di tempo”.(9)


Tuttavia nel caso specifico delle ALP l’intensificazione del lavoro, pur in presenza di un pari grado di produttività (ovvero di produzione fisica per unità di tempo) rispetto allo steso tipo di lavorazioni presenti nei paesi industrializzati, è ottenuto con una meccanizzazione inferiore, e dunque la distinzione tra i due processi, apparentemente simili, va ricercata altrove.


“In teoria la distinzione tra aumento della produttività e intensificazione è nettamente delineata. Entrambe si svolgono a vantaggio del capitale ma per vie diverse. Un grande aumento della produttività accresce il saggio di plusvalore col diminuire il valore della forza lavoro così come di tutte le altre merci.

Gli effetti dell’intensificazione del lavoro sul saggio di plusvalore sono più complessi. In un primo momento il valore delle merci non ne è toccato e ciò può lasciare immutati valore della forza-lavoro e saggio del plusvalore. Il valore del salario orario cresce, ma cresce anche l’ammontare di forza lavorativa che l’operaio vende per ciascuna ora. Più lavoro significa più logorio per gli operai che hanno bisogno di un maggior consumo per mantenersi in buono stato lavorativo. Un esempio ovvio è quello di chi fa lavori manuali pesanti, che ha bisogno di una alimentazione maggiore di chi ne fa di più leggeri. Tuttavia non vi è ragione per cui l’aumento del valore della forza-lavoro e, quindi del salario, corrisponda a quello dell’intensità del lavoro; di certo , per il capitale è preferibile che cresca di meno (il valore della f.l.) dato che ciò farà aumentare il saggio di plusvalore”.(10)


Nel caso delle ALP ci troviamo di fronte a un processo di questo tipo: l’intensificazione del lavoro genera un aumento (relativo) del valore della f-l (dal momento che la composizione organica del capitale è bassa), pur in presenza di livelli salariali inferiori fino a 10 volte rispetto a quelli dei paesi industrializzati (che anche dal punto di vista del salario reale non consentirebbero un’effettiva riproduzione sociale), per cui ciò non basta a giustificare il comportamento del capitale, a meno di considerare che:

”l’intensificazione del lavoro aumenta il saggio di profitto in due modi, accrescendo l’ammontare assoluto di plusvalore e riducendo il periodo della sua produzione e realizzazione. Lasciando da parte per il momento gli effetti di un’aumentata produttività che può ridurre direttamente il valore della forza-lavoro, l’intensificazione del lavoro rende possibile qualcosa di apparentemente paradossale: cioè un aumento del valore del salario parallelamente a un saggio crescente di plusvalore e profitto. Si tratta senza dubbio di uno dei grandi fattori che hanno consentito in questo secolo l’aumento dei salari reali e dei livelli di vita della classe operaia”. (11)



Questa conclusione, valida se rapportata a un arco di tempo che va dall’inizio del secolo ad oggi, va rivista alla luce delle scelte del capitale negli ultimi anni e in particolare del significato che assumono le ALP in vista di una loro moltiplicazione su scala mondiale.

Se infatti si considerano le ALP come incorporate nel processo di produzione complessivo, e quindi non più momenti a sé stanti dello sviluppo capitalistico, ci si accorge che il capitale scomponendo la produzione materiale nello spazio e mantenendo la sua simultaneità nel tempo, nel mentre realizza una riduzione del valore della forza-lavoro nei paesi industrializzati introducendo con la meccanizzazione spinta alti livelli di produttività, reintroduce nel processo di produzione complessivo un aumento del valore della forza-lavoro attraverso le ALP.


Ora se si considera il valore del prodotto delle ALP come già incorporato nel ciclo di produzione complessivo, il risultato finale è quello di ridurre il valore della forza lavoro in misura minore di quanto si riduce il valore del salario e questo perché nell’alta produttività del lavoro meccanizzato viene incorporata l’alta intensità del lavoro manuale ottenuta nelle ALP. Ciò comporta un rallentamento, se non uno stravolgimento, nel processo di trasformazione del capitale circolante in capitale fisso, a tutto vantaggio di un’accumulazione di ricchezza sempre maggiore e sempre più concentrata nel tempo, che inficiano l’assunto marxiano secondo cui:

”Come la grandezza del plusvalore relativo dipende dalla produttività del lavoro necessario, così la grandezza del tempo di lavoro…impiegato nella produzione del capitale fisso dipende dalla produttività del tempo di lavoro destinato alla produzione diretta dei prodotti”. (12)


Il tempo di lavoro, in quanto “grandezza estesa”, è stato liberato dal vincolo della produttività in senso stretto, cioè come aumento della composizione organica del capitale e in particolare del capitale fisso (meccanizzazione), in virtù di una trasformazione del lavoro che non necessariamente si traduce in aumento di produttività tale da “obbligare il capitale circolante a trasformarsi in capitale fisso, con le conseguenze che ciò comporta sulla legge del valore e sulla “tendenzialità” della caduta del saggio di profitto.


In altre parole si può dire che il capitale opera una scomposizione spaziale del ciclo della produzione pur mantenendola inalterata (o ricomponendola) nel tempo, nel senso che (ad esempio) un semilavorato spedito in una ALP e qui “ri-lavorato”, torna a far parte del ciclo produttivo iniziale (altamente meccanizzato) introducendovi –dal momento che lo porta con sé- un pluslavoro relativo tale che non sarebbe possibile ottenerlo, se non innalzando la composizione organica del capitale, più di quanto sarebbe possibile ridurre il valore della forza-lavoro con l’aumento della produttività.


Ora dal punto di vista dell’analisi nulla vieta di immaginare che il semilavorato, invece di essere spedito in una ALP, non esca dal ciclo di produzione iniziale, ma vi compaia come lavoro nascosto, prodotto e scambiato in modo ineguale a quello del ciclo in esame, per cui è come se il rapporto tra il tempo di lavoro necessario e il tempo di lavoro superfluo sia diminuito a tutto vantaggio della appropriazione della ricchezza da parte del capitale, pur restando pressoché invariata la misura del tempo di riproduzione sociale.


Il paradosso è chiaro, ma serve a far capire come in definitiva il fatto che il capitale sia spinto ad accelerare fortemente la rotazione del capitale circolante rispetto a quella del capitale fisso, trova origine nella padronanza assoluta che esso ha dei meccanismi che regolano il tempo della riproduzione sociale, che si presentano sotto forma di finzione cronologica insita nei rapporti sociali dominanti anche al di fuori del dominio stesso della produzione materiale.


La dialettica tempo disponibile-tempo di lavoro- tempo libero, va rivolta dunque contro “il furto del tempo di lavoro altrui” essendo infine solo e soltanto l’appropriazione del tempo l’indicatore generale, valido a scuotere nelle fondamenta l’apparato capitalistico, non solo perché nella produzione basata sul capitale l’esistenza del tempo di lavoro necessario ha per presupposto la creazione (e l’appropriazione da parte dello stesso capitale) di tempo di lavoro superfluo, ma soprattutto perché appunto “tutto lo sviluppo della ricchezza si basa sulla creazione di tempo disponibile. Ma perché questa creazione non sia frutto della rapina del capitale e soprattutto



affinché il conflitto tra lo sviluppo del capitale come forza sociale e le condizioni private dell’appropriazione capitalistica, non si risolva a favore del carattere distruttivo del capitalismo, occorre strappare al capitale anche il dominio del tempo, solo così: ”(il fine diventa) il libero sviluppo dell’individualità, e quindi non la riduzione del tempo di lavoro necessario per creare pluslavoro, ma in generale la riduzione del lavoro necessario della società ad un minimo, a cui corrisponde poi la formazione e lo sviluppo artistico, scientifico ecc. degli individui grazie al tempo diventato libero e i mezzi creati per tutti loro”. (13)


Sull’orologio esposto durante l’assemblea costitutiva delle Trade Unions nel 1869 c’era scritto:”Chiediamo 8 di lavoro, 8 ore per la nostra istruzione, 8 ore di riposo”. Ebbene oggi non solo è giusto, ma anche possibile scriverci questo:”Chiediamo 4 ore di lavoro, il resto è per vivere”.



La scienza non pensa;

perché non è il suo compito.

(Heidegger)





Nella progressiva risoluzione del rapporto tempo di lavoro/tempo libero dunque, il pensiero classico marxista ha sempre fondato le analisi di sviluppo della contraddizione tra capitale e lavoro e viceversa, a riprova dell’assunzione di questo rapporto come di un rapporto dialettico.


Ma se si esamina il modo in cui tale assunzione è stata trasposta nei processi reali di modificazione della società, ecco che la dialettica non è più libera di manifestarsi in tutta la sua complessità:

”La trasformazione del rapporto quantitativo tempo di lavoro /tempo libero, provoca una rivoluzione qualitativa, a condizione che sia integrata in un processo di disalienazione progressiva del lavoro, del consumo e dell’uomo, da attuarsi attraverso il progressivo deperimento della produzione mercantile, delle classi, dello stato, della divisione sociale del lavoro. Le attività ricreative cessano di essere commercializzate quando il “commercio” deperisce (….). Il tempo libero cessa di essere fonte di noi e di oppressione quando i suoi “consumatori” si trasformano da spettatori passivi in partecipanti attivi. Ma queste trasformazioni radicali devono in primo luogo realizzarsi nella sfera della produzione e della vita politica prima di potersi manifestare nella sfera delle attività ricreative (....)” (14)


Anche se non esplicitata in forma letterale, è evidente la consequenzialità ancora una volta temporale, della trasformazione dei rapporti sociali determinati a detrimento, non solo della esplicitazione dialettica delle contraddizioni insite in quei rapporti, ma soprattutto delle condizioni materiali (meglio, dei presupposti di esistenza di queste condizioni), necessarie perché si realizzi la trasformazione. Non si tratta di riproporre banalmente il dibattito, pure costantemente necessario, tra struttura e sovrastruttura e ancor più della priorità dell’una rispetto all’altra, ma di entrare appunto nel merito di quelli che tradizionalmente sono indicati come i presupposti necessari al cambiamento della struttura verso la liberazione dell’uomo.


Presupposto principale, come si è già visto, è lo sviluppo delle forze produttive determinato soprattutto dalla tecnologia e dalla applicazione della scienza alla produzione, sia durante lo sviluppo del capitalismo, sia nella costruzione del comunismo. La scienza applicata dunque, si presenta come fattore continuativo dello sviluppo sociale, ance in presenza di una rivoluzione nei rapporti di produzione; fattore continuativo nel senso di agente attivo dello sviluppo dal momento che l’evoluzione del pensiero marxista ha posto nello sviluppo delle forze produttive, la chiave di volta della trasformazione sociale, col risultato di trasformare la presunta continuità della scienza nel suo inverso: la scienza della continuità.


E’ pur vero che Marx, a dispetto di chi lo vuole ridurre ora a “filosofo”, ora a “economista”, aveva messo in guardia (da rivoluzionario quale soprattutto era) che le forze produttive rischiano di trasformarsi in forze distruttive, se i rapporti capitalistici non sono rovesciati; ma è altrettanto vero che al di là di questa configurazione generale sull’esito della contraddizione tra sviluppo sociale e rapporti di produzione, è inutile cercare (tanto più forzosamente) nell’opera di Marx un’analisi critica della scienza quale ci si presenta (oggi sì), in tutta la sua necessità.


E’ come ricercare, per altri versi, il costrutto logico di un’”Opera Omnia” che in Marx esiste solo in quanto critica dell’economia politica e critica della filosofia, a partire dal metodo dialettico-materialista, in cui la scienza aveva (allora) un carattere tanto più preminente, quanto più venendo a inserirsi nel divorzio, già in atto, tra scienza e filosofia, si schierava contro l’idealismo residuale o rinascente sotto mentite spoglie, quale Lenin successivamente dovette affrontare.


Che questo divorzio sia stato generato da una necessità storica, non giustifica alcuna tesi di “necessario ritardo” della filosofia marxista sulla scienza marxista, dovuto al “sistema” filosofico hegeliano:

”Engels non aveva in fondo tutti i torti quando diceva che la filosofia sorge una volta scesa la notte: allorché la scienza, nata all’alba, ha già percorso l’arco di una lunga giornata (….). La filosofia esiste solamente nel suo ritardo sulla provocazione scientifica. La filosofia marxista dovrebbe quindi essere in ritardo sulla scienza marxista della storia”. (15) Tanto è vero che “(…) i tempi non erano maturi, che la notte non era calata e che né Marx stesso, né Engels, né Lenin potevano ancora scrivere quella grande opera filosofica che manca al marxismo. In un certo senso, se è vero che venivano dopo la scienza da cui essa dipende, venivano però ancora troppo presto per una filosofia indispensabile sì, ma che può tuttavia nascere soltanto da un necessario ritardo”.(16)


A parte l’ovvia considerazione che se la filosofia è “morta”, ciò andrebbe imputato alle mancate provocazioni della scienza (e quindi sarebbe ancora sulla scienza che va rivolta l’attenzione), resta la leggerezza di imputare lo scarto filosofico del marxismo a un ritardo strutturale della stessa filosofia pre-marxista, piuttosto che alle condizioni di scontro allora in atto tra proletariato e borghesia, tra forze della rivoluzione e forze della conservazione. Scontro che per di più non toglie nulla al fatto che la categoria del riflesso, già trattata dal materialismo dialettico, si adatta più all’analisi della scienza, (se per questa intendiamo “non un processo di trasformazione del reale ma un processo di conoscenza legato alla trasformazione del reale”),(17) che alla critica della filosofia. Infatti:

”La filosofia è una delle forme del riflesso del reale nella coscienza. Generalmente la coscienza è in ritardo sul reale (per esempio: rapporti di produzione-coscienza di classe). Esiste un primato del reale, e il ritardo della coscienza è un elemento supplementare del carattere dialettico del processo conoscitivo. Ma dal momento che la coscienza non è lo specchio, o l’apparecchio che sia in differenza di fase con la sua sorgente, ci può essere non soltanto ritardo, ma anche anticipo. L’uomo può prevedere sulla base delle leggi del reale già esplorato, e non con un’intuizione mistica, che la filosofia ha già formulato certe relazioni del reale prima della loro scoperta da parte della scienza (…..). Il nostro riflesso del mondo è in evoluzione perpetua: esso è il riflesso del reale. Ma siccome l’uomo è anche un demiurgo, l’anticipazione, la prospettiva, la pianificazione fanno parte della sua attività. In questo processo la coscienza può precedere il reale e il realizzabile”. (18)


Dunque la “piaga” su cui mettere il dito è la scienza; particolarmente la scienza come presupposto intrinseco all’analisi marxista della trasformazione sociale e quindi non l’uso della scienza, altrimenti detto semplicisticamente capitalistico e così sbrigativamente liquidato, ma la scienza come “nuova filosofia del mondo”. Questa concezione si è fatta strada nel marxismo per due ordini di motivi, uno di carattere pratico, inteso come volgarizzazione della prassi (rivoluzionaria), l’altro di carattere teorico che in questo tipo di prassi ha trovato l’alibi per lo strangolamento del materialismo dialettico.


Non è un caso che il declino della rivoluzione d’Ottobre si sia accompagnata, sul piano pratico, all’affidabilità del progresso scientifico e tecnologico esemplificato dalla proliferazione dei piani quinquennali di sviluppo che attraverso l’opera di divulgazione della III Internazionale, hanno determinato in tutto il campo marxista l’immagine della potenza scientifica liberata dal socialismo realizzato, che a sua volta diffondeva nel mondo la speranza riposta nelle “magnifiche sorti e progressive”.


Il socialismo “interpretato” era in definitiva l’elevazione costante del consumo attraverso lo sviluppo delle forze materiali della produzione e in particolare delle capacità risolutorie che di per sé stessa possedeva la scienza:

”La cibernetica e l’automazione sono le condizioni tecniche della situazione comunista, perché permettono all’uomo di liberarsi d’ogni lavoro schematico non creativo (….)” al punto che, quando i bisogni sono soddisfatti è possibilissimo, in parte grazie allo stesso progresso tecnico, passare a produzioni di piccola serie incorporandovi progetti artistici originali. Inoltre il tempo di “lavoro


obbligatorio” sempre più ridotto contribuirà a far rifiorire tutte quelle cose che richiedono amore e cure personali….Senza dubbio esse ritorneranno sotto forma d’arte liberamente praticata da coloro che saranno stati liberati dalla tecnica”. (19)


Che queste impostazioni arrivino a prefigurare in maniera pedante il “ritorno di arti liberamente praticate”, lascia il tempo che trova; ciò che invece sorprende la nostra attenzione –e dunque ha un senso- è lo sproporzionato determinismo dell’assunto teorico sulle “condizioni tecniche della situazione comunista” che mira a fare il vuoto intorno a tutto il materialismo-dialettico, principalmente di Engels e Lenin. In questo modo la scienza viene ad essere separata dalla realtà sociale e dallo stesso scienziato, che quasi non esprime più un suo punto di vista in quanto, per definizione, esso è già contenuto nella scienza, ormai basata solo su se stessa e sulla sua necessità “storica”.


A questo punto l’identificazione tra sviluppo delle forze produttive e scienza avviene anche sul terreno della necessità di “combattere”, in nome dei classici del marxismo, le tendenze dissolutrici e dissipatrici del capitalismo:

”Difendere i prodotti e le forze produttive creati dalla società capitalistica borghese contro l’azione annientatrice, distruggitrice dello stesso sistema capitalistico, togliendo la direzione della produzione e della distribuzione sociale dalle mani della classe capitalistica dominante divenuta di essa incapace e trasferendola alla massa produttrice: e questa è la rivoluzione socialista”. (20)


Quale migliore citazione di Engels può essere usata dall’odierno marxismo per nascondere la sua incapacità di critica al sistema capitalistico, se non quella di anteporre l’emergenza della fame e del sottosviluppo per giustificare, non solo la difesa, ma l’appoggio allo sviluppo delle forze produttive senza nulla cambiare nei rapporti di produzione e alla scienza-fattrice di questi rapporti: se la rivoluzione socialista consiste in questo, allora è stata già fatta e ha dato vita al peggior tipo di capitalismo.


Questo timore riverente del marxismo nei confronti della scienza, a parte gli inconcludenti balbettii sull’uso fattone dal capitalismo, non si limita ad accettare la “produzione scientifica” così com’è, ma rifiuta anche qualsiasi critica di carattere epistemologico e formalistico all’impostazione stessa della ricerca scientifica. Ciò che viene sempre messo avanti a tutto sono le scoperte, la quantità dei dati ottenuti, in questa o quella disciplina scientifica, come sintomo di conoscenza e soprattutto di progresso, e in questa enfatizzazione della “materialità” della produzione scientifica, si perdono di vista non solo il materialismo-dialettico come metodo di analisi, ma, anche, e più semplicemente, gli spunti critici sul valore qualitativo della scienza.


Che la scienza progredisca, stante il suo attuale livello di produzione di dati scientifici, può risultare un’ovvietà senza senso, se non si cerca il segno di un cambiamento qualitativo nell’indirizzo del sapere scientifico e, di conseguenza, delle sue applicazioni tecnologiche:

”Sul piano del benessere non credo che la scienza abbia poi dato i frutti attesi. La speranza di prolungare la vita, per esempio, non è stata esaudita, in questi ultimi anni, nemmeno nei paesi sviluppati. La medicina continua a rivelarsi praticamente impotente di fronte a malattie degenerative che arrestano la vita umana sulla soglia tra i 70 e gli 80 anni. Dunque la crescita della biologia non ha avuto effetti radicali circa la questione del miglioramento della salute e della longevità. Né la biologia molecolare, dalla scoperta del DNA in poi, ha avuto miglior sorte dal momento che tutto lo pseudoprogresso della biologia molecolare è stato un progresso di semplice descrizione, non di spiegazione (….) i progressi che i biologi vantano sono in realtà acquisizioni di nuove descrizioni. E’ questo tratto delle cose che si lega essenzialmente, come si diceva, all’aspetto prettamente empirico della scienza moderna. Si crede oggi che ogni scienza sia sperimentale e senza esperimenti non si dia affatto scienza (….). Il problema è che si possono sempre fare delle esperienze, su qualsiasi cosa e con qualsiasi strumento! Basta avere uno strumento, farlo funzionare in questa o quella condizione, su questo o quell’ambiente, ecc. e si è sicuri di ottenere dei “dati” che si possono poi presentare come “produzione scientifica”. L’”inflazione speri mentale” non è meno perniciosa dell’inflazione economica: si hanno degli strumenti, li si utilizza massicciamente e se ne trae una massa sterminata di dati di fronte alla quale, alla fine, non si sa che cosa fare”. (21)


“Nonostante il suo esordio folgorante, la tecnologia non è riuscita a risolvere i grandi problemi sociali del nostro mondo: malnutrizione, sottosviluppo, una crescita della produzione che non garantisce la soddisfazione dei bisogni più elementari. La tecnologia ha accresciuto l’orrore della guerra, e fa pesare sugli uomini la minaccia di un conflitto nucleare. Se il progresso scientifico e lo sviluppo tecnologico hanno consentito di migliorare la salute e il livello della vita, essi hanno legittimato l’asservimento dei lavoratori dei paesi industrializzati alla catena di montaggio e a una divisione del lavoro che finisce per essere concepita come il prezzo da pagare per il progresso umano”. (22)


Che questi atteggiamenti critici provengano da un’area non marxista, non toglie nulla al fatto che essi contengano elementi di verità, soprattutto non giustifica la rinuncia del marxismo ad affrontare questi temi con la motivazione che altrimenti si dicono le stesse cose degli avversari o peggio che si fa il loro gioco. Così facendo si usa lo stesso metodo, né più né meno, della giustificazione a priori, ormai universalmente accettato per la ricerca scientifica dove, in virtù di uno sperimentalismo dilagante, tutto è funzione, non dei risultati che si ottengono, ma dei presupposti dell’indagine che si vuole effettuare, dal momento che anche la scienza è merce scambiata nel capitalismo e ideologizzata nel marxismo.Infatti:

”nella misura in cui la sperimentazione costa, si deve fare appello a modelli molto ben giustificati a priori. Ma la modellizzazione è una scommessa, c’è una posta e una vincita: la posta è la giustificazione a priori, la vincita quella a posteriori. Ora, nella scienza moderna, le cose vanno esattamente al contrario: la giustificazione a posteriori è praticamente trascurabile rispetto a quella a priori. Poiché si vogliono fare sperimentazioni costose, la macchina sperimentale deve funzionare a tutti i costi”. (23)


Basti pensare alla proliferazione di ricerche e di analisi –anche parascientifiche come le indagini comportamentali degli individui- fatte con l’uso di calcolatori elettronici che, proprio per il fatto di non poter essere effettuate con altri mezzi, trovano la loro giustificazione non nei fini della ricerca, ma nell’impiego, (costoso), di questo mezzo.


L’immagine di Heidegger di una “scienza che non pensa” è ben rappresentata da un calcolatore elettronico, macchina che non pensa, ma che “progredisce” perché in definitiva acquisisce sempre nuovi dati, cosa di per sé insignificante dal momento che accanto a questo andrebbe ricercato il senso, l’interesse e quindi il valore della conoscenza in sé, pena la non possibilità di stabilirne l’uso e le finalità.


Il fatto che “l’uso capitalistico della scienza” sia diventato per il pensiero marxista niente di più che una formula esorcistica, dipende dallo snaturamento della dialettica e del materialismo nelle forme del “dialogo” e della “materialità”, che tendono a ripristinare il primato della statica sulla dinamica, dell’inerzia sul movimento, della conservazione sulla rivoluzione.


Scrive Timpanaro che: ”L’unica caratteristica, forse, comune a tutto l’odierno marxismo occidentale (con rarissime eccezioni) è la preoccupazione di difendersi dall’accusa di materialismo. Marxisti gramsciani e togliattiani, marxisti hegeliano-esistenzialisti, marxisti neoposistiveggianti, freudeggianti, strutturaleggianti, pur nei profondi dissensi che li dividono, sono concordi nel respingere ogni sospetto di collusione col materialismo “volgare” o “meccanico”, e lo fanno con tale zelo, da buttar via,insieme alla volgarità o meccanicità il materialismo tou-court (….). Ma se i riformisti attuali sono antimaterialisti per uno spiegabile influsso della cultura borghese, non si può dire che la nuova leva di marxisti rivoluzionari venuta su dopo il ’60 abbia rimesso l’accento sul materialismo”.(24)


Rimettere l’accento sul materialismo non significa però rivalutazione del marxismo “orientale”, e quindi del “polo socialista” da contrapporre al marxismo occidentale, perché ciò equivarrebbe a

riproporre atti di fede nelle “verità” del materialismo dialettico, così come si è espresso storicamente, fino a comprendere, da un lato il rigetto del “novum” introdotto dalla teoria della relatività, e dall’altro l’esaltazione della cibernetica e dell’automazione in quanto scienza e tecnica liberatorie per eccellenza.


Occorre dunque sviluppare una critica marxista della scienza contrastando le posizioni del marxismo occidentale che, per dirla con le parole della Fiorani, convergono di fatto con:

”la posizione degli accademici sovietici che non sviluppano il materialismo dialettico, ma, limitandolo a filosofia esterna alla scienza e interpretativa di essa, intendono il lavoro scientifico come aclassistico, come neutro in sé se non nell’uso, e non vedono proprio nell’interno della scienza il condizionamento di classe. Risolvendo tutto sul piano della filosofia e della difesa della scienza in sé, non riferita alla classe e a una nuova struttura produttiva, si fanno portatori di un nuovo scientismo, non intrinsecamente diverso da quello statunitense.” (25)




I gradini dei giorni si vanno via via superando; non ti addentrare nelle dimore dell’affanno! Quante cose difficili a ottenersi sono poi poste a portata di mano dall’ora della liberazione!

(Storia del Re Omar an-Numan)

da “Le mille e una notte







Una critica della scienza rinvia inesorabilmente a una critica dei bisogni. Da Marx in poi lo sviluppo di una teoria dei bisogni umani, ha sempre costituito un elemento centrale nella risoluzione del contrasto tra capitale e lavoro; mentre il secondo ha storicamente lottato per l’affermazione dei suoi bisogni essenziali e fisiologici, il primo ha teso da una parte a moltiplicarne gli aspetti, dall’altra a limitare il loro valore allo stretto necessario ( sotto forma di salario), compatibile col grado di sviluppo della produzione sociale.


Da qui ne consegue una differenza formale tra bisogno e consumo, dal punto di vista della legge della riproduzione sociale. Infatti, mentre il consumo (quando è consumo necessario) si riferisce normalmente ai mezzi di sussistenza “sufficienti” a mantenere in vita l’individuo come individuo che lavora, il bisogno implica già una dimensione sociale della necessità, diversa da quella biologica per quantità e qualità del consumo.


Ma nella produzione capitalistica questa differenza sparisce, dal momento che entrambi sono ridotti a merce e in quanto tali, con l’atto materiale del consumo, si scambiano come tutte le altre merci. Si potrebbe dire che nella produzione capitalistica, la scienza esalta il consumo e svilisce il bisogno, nella misura in cui aumentando e differenziando i prodotti destinati al consumo, gli fa perdere la loro natura essenziale di valori d’uso, trasformandoli in merce e riaffermando così il dominio della produzione materiale sui rapporti sociali.


Come scriveva Engels: ”La società basata sulla produzione delle merci ha per caratteristica il fatto che i produttori, al posto di gestire le proprie relazioni, sono da esse dominati”.


Ora, più la produzione di merci si fonda sulla scienza, più la determinazione del bisogno avviene “scientificamente”, nel senso che comincia ad essere indotta negli individui la necessità di consumare prodotti, oltre la dimensione sociale stabilita dal bisogno stesso. Se dunque è vero che:”(…) la produzione offre esteriormente l’oggetto del consumo (il prodotto), ma è il consumo che pone idealmente l’oggetto della produzione…”, (26) è altrettanto vero che il consumo viene ad essere l’oggetto ideale del bisogno, quanto lo sviluppo del modo di produzione capitalistico è ormai tale che solo nel consumo si realizza ogni tipo di “bisogno sociale”.


Ma il “bisogno sociale” espresso nel consumo è una finzione: esso è l’espressione contraddittoria del sistema di produzione capitalistico, in quanto crea una dimensione sociale del bisogno che è “inumana”, perché riduce i rapporti sociali tra uomini a uno scambio di merci in cui, apparentemente, il consumo dà valore alla soddisfazione del bisogno, ma solo in quanto, nel medesimo tempo, il bisogno stesso si consuma come rapporto sociale; come scambio materia-lizzato di relazioni tra produttori, che sono appunto dominati dai rapporti di produzione esistenti.


Quali dunque gli elementi costitutivi di una critica dei bisogni che va sviluppata a completamento di una “teoria dei bisogni”, tutt’ora indefinita dall’analisi marxista?


Innanzitutto in Max il bisogno è un fatto storicamente determinato a prescindere dal tipo di società esistente:”….una volta soddisfatto il primo bisogno, l’azione di soddisfarlo e lo strumento già acquisito di questa soddisfazione spingono a nuovi bisogni, e questa produzione di nuovi bisogni è l primo fatto storico”. (27)

D’altra parte nel Capitale egli scrive: ”Come il selvaggio deve lottare con la natura per soddisfare i suoi bisogni, per conservare e riprodurre la vita, così deve fare anche l’uomo civile, e lo deve fare in tutte le forme della società e sotto tutti i possibili modi di produzione”. (28)


Ciò significa che non soltanto l’uomo produce i propri mezzi di produzione, ma produce anche in larga misura i suoi bisogni, fermo restando che la soddisfazione di questi bisogni, al fine di mantenere e riprodurre la vita, è subordinata sia allo sviluppo dei mezzi di produzione, sia alla lotta con la natura, intesa da questo punto di vista come forza ostile.


Dunque non c’è limite allo sviluppo dei bisogni, che non sia già determinato dal limite della produzione sociale, almeno fino a quando questa produzione sociale resta dentro i confini della produzione materiale, ovvero dentro il regno della necessità. Soltanto il superamento della produzione materiale vera e propria, crea i presupposti per l’estinzione del bisogno in quanto necessità sociale, dando vita: ”allo sviluppo delle capacità umane, che è fine a se stesso, (cioè) al vero regno della libertà, che tuttavia può fiorire soltanto sulle basi di quel regno della necessità”. (29)


L’esigenza di una critica dei bisogni nasce quindi da due considerazioni. La prima è che non c’è soluzione di continuità allo sviluppo dei bisogni sociali nel passaggio da una società all’altra, da un modo di produzione all’altro, se non quando il regno della necessità (dove il lavoro è necessario) cede il posto al regno della libertà che tuttavia si fonda ancora, e necessariamente, su un sistema che ha tra gli scopi principali, la soddisfazione dei bisogni. In altre parole premesso che nel passaggio da una società capitalista a una società comunista, i rapporti sociali di produzione si invertono a favore dei produttori, ciò non comporta automaticamente il passaggio da un sistema di bisogni (capitalista) a un altro (comunista), né tantomeno la scomparsa del bisogno tout-court, dal momento che gli stessi rapporti sociali si invertono, ma non si estinguono. “Quali desideri, sotto l’organizzazione comunista, sono semplicemente mutati e quali annullati, è una cosa che può essere stabilita solo nella pratica, tramite la modificazione dei desideri reali, pratici”.(30)


E’ il comunismo quindi che determinerà i bisogni, o sono i bisogni a qualificare il comunismo?


Ancora una volta la finzione cronologica del tempo, rischia di offuscare la dinamica insita nei processi reali di trasformazione, nella misura in cui l’attesa dell’evento che rivoluzionerà lo stato di cose presenti, è un tempo di attesa senza ricerca, una dialettica senza critica.


La seconda considerazione riguarda la forma specifica della produzione capitalistica nel suo attuale grado di sviluppo, in particolare della produzione e del consumo delle merci.


Si è visto come la tendenza a soddisfare nel consumo ogni tipo di bisogno sociale, corrisponda a un’esigenza indotta da un processo di alienazione umana dei rapporti sociali, principalmente dall’alienazione del lavoro umano.


Senza voler entrare nel merito del dibattito, ormai in corso da anni sull’interpretazione marxista dell’alienazione, (dai manoscritti al Capitale passando per i Grundrisse, dibattito che ci porterebbe a discutere della preminenza filosofica o economica dell’analisi marxiana e quindi della formazione –filosofica o economica- del pensiero di Marx), mi interessa sviluppare l’aspetto dell’alienazione, relativamente agli effetti indotti nella sfera del consumo e della produzione dei bisogni sotto forma di merci. In altre parole l’alienazione relativa al prodotto del lavoro, più che al lavoro stesso: ”…la produzione capitalistica in sé non s’interessa a questo o a quel valore d’uso e la particolarità della merce che essa produce le è del tutto indifferente. Quello che conta in ogni campo della produzione è soltanto di produrre plus valore e di appropriarsi, nel prodotto del lavoro, di una certa quantità di lavoro non pagato. Allo stesso modo, è nella natura del lavoratore salariato, assoggettato al capitale, l’essere indifferente al carattere specifico del proprio lavoro, e di essere forzato a subire cambiamenti in funzione della necessità del capitale, lasciandosi spostare da un campo all’altro della produzione”.(31)

L’indifferenza del lavoratore nei confronti del proprio lavoro è pari a quella del capitale, dal momento che il lavoro si presenta già come alienato dal suo prodotto e quindi l’”interesse” reciproco tra capitale e lavoratore (dovuto specificatamente al rapporto di produzione capitalistico), prescinde dal risultato del processo lavorativo, cioè dal prodotto. Ma se questo è vero per la sfera della produzione, come fa il lavoratore ad essere parimenti indifferente al prodotto all’atto del suo consumo, nonostante l’evidente nocività o inutilità di moltissimi prodotti?


La risposta è nel fatto che i prodotti assumono, nella società capitalistica, le forme di merci, che possiedono un valore dovuto al lavoro da esse contenuto e che questo valore viene reso evidente solo all’atto dello scambio, per cui in definitiva ciò che a prima vista fa apparire il consumo come una massa infinita di compravendite di oggetti tra gli uomini, altro non è che una permutazione di valore tra merci, ovvero uno scambio di lavoro umano contenuto nella merce. E’ l’astrazione dello scambio quindi che fa sì che, anche all’atto del consumo, il lavoratore rimanga tanto più indifferente al prodotto, quanto più il processo di alienazione dai rapporti sociali avanza nella sfera della produzione e del consumo, fino a rendere il consumo l’oggetto ideale del bisogno, ovvero fino a creare il “bisogno” del consumo tout-court: ”La trasformazione di tutti gli oggetti in merci, la loro quantificazione in valori feticistici di scambio (diventa)…. un processo intensivo che opera in questo senso su ogni forma di oggettualità della vita”. (32)


Se dunque il primo fatto storico è la produzione da parte dell’uomo dei suoi stessi bisogni, è l’appropriazione di questo fatto storico da parte del capitale che costituisce uno dei pilastri della società capitalistica. Essa ha trasformato in merce ogni tipo di bisogno sociale, affettivo o culturale, impadronendosi delle tecniche (oltrechè dei mezzi) di comunicazione; le scienze cosiddette sociali, nel mentre approfondiscono teoricamente la possibilità di conoscere la natura umana in senso filosofico, supportano scientificamente le tecniche di controllo sociale sui comportamenti e sui bisogni degli uomini, affinché essi, pur nella loro imprevedibilità, restino comunque vincolati a dei rapporti sociali mercificati, che negano il fine umano del bisogno.


Non è azzardato indicare nell’esistenza di una “tecnologia del bisogno” che anticipa e forma i desideri degli uomini, il complemento di quella “tecnologia del comportamento” teorizzata oltre dieci anni fa dallo scienziato americano Skinner. Secondo questa teoria si tende a storicizzare il fatto che il comportamento umano sia dovuto al controllo dell’ambiente fisico e sociale, per cui di fatto si nega all’uomo la possibilità di esistere in quanto individuo “libero” e “autonomo”, se non nell’ambito di un ordine sociale prestabilito. Dato che il capitalismo, pur se perfettibile, rappresenta il “migliore dei modi possibile”, occorre sviluppare un controllo scientifico totale del comportamento, ovvero l’applicazione su larga scala di una nuova “tecnologia del comportamento che si occupi dell’ambiente sociale con la stessa semplicità con cui noi ci occupiamo dell’ambiente non sociale”.(33)


Queste tecnologie, seppure non applicate in forma diretta, sono spesso considerate essenziali nella determinazione dei processi produttivi, ovvero nella definizione dei prodotti in funzione del mercato; dall’industria del tempo libero a quella dei beni cosiddetti di consumo (e in quota parte per quelli cosiddetti durevoli), lo slogan è: persuadere per vendere, al fine di sfruttare per produrre.


Ciò non vuol dire che la sfera del consumo sia determinante rispetto a quella della produzione, né che il valore complessivo del consumo sia proporzionale al valore d’uso delle merci perché l’applicazione di tecniche di “formazione” del bisogno e del consumo, per essere efficaci devono contemplare modificazioni nella durata o nella qualità della merce che siano compatibili con l’esigenza della produzione:

”I vantaggi per il capitale, di un deprezzamento accelerato e di una riduzione in qualità e durata di una merce, sono facili da capire. Dato che l’intensificazione del lavoro comporta un amento del valore dei salari e del consumo; l’altra è di ridurre il valore d’uso rispetto al valore, così da poter estendere in maniera relativamente più lenta l’arco di nuovi beni. L’adottare quest’ultima soluzione comporta dei risparmi nei costi di innovazione reale e di sviluppo: è molto meno costoso adottare modificazioni superficiali che danno l’impressione della novità ed in più contribuiscono ad accelerare il deprezzamento di una merce. Ciò inoltre, ha l’effetto di creare confusione sulla natura dello sfruttamento facendolo apparire una caratteristica del consumo invece che della produzione. Tale confusione è aggravata dal fatto che abbassamenti qualitativi delle merci sono sperimentati da tutti i settori della società e non soltanto dalla classe operaia e possono essere facilmente guardati come “problema sociale” senza caratteristiche di classe”. (34)


La produzione sulla base di valori di scambio, e tipicamente la produzione di merci, genera dunque il processo di alienazione dell’individuo da sé e dal proprio lavoro; ma genera anche, grazie all’astrazione dello scambio, l’alienazione del bisogno sociale, affettivo e culturale, che nella finzione dei rapporti sociali determinati, riconduce tutto in forma di merce: la mercificazione della natura, dell’amore, del divertimento, non sono soltanto definizioni immaginifiche per esorcizzare il “mostro” del capitalismo, ma sono anche il modo in cui il capitalismo produce i nostri bisogni, che è al tempo stesso un modo di consumare la nostra vita.

“Noi partiamo da un fatto economico attuale. L’operaio diventa tanto più povero quanto più produce ricchezza, … l’operaio diventa una merce tanto più a buon mercato quanto più crea delle merci. Con la messa in valore del mondo delle cose cresce in rapporto diretto la svalutazione del mondo degli uomini. Il lavoro non produce soltanto merci; esso produce se stesso e il lavoratore come una merce, precisamente nella proporzione in cui esso produce merci in genere”. (35)


Una critica dei bisogni dunque non può che partire da questa intuizione di Marx (non più sviluppata successivamente), sulla svalutazione del mondo degli uomini in rapporto al mondo delle cose, rappresentata dalla mercificazione crescente degli stessi rapporti sociali, che traendo origine dalla produzione si realizza, in quanto svalutazione della dimensione umana, nel consumo e nella riproduzione della vita dell’uomo come merce.


In che modo è possibile sviluppare una critica dei bisogni a partire dalla merce, senza ricadere nell’ambiguo argomento della sostituzione di “beni di consumo” con “beni durevoli”, che nella tradizione terzinternazionalista ha portato al grigio mondo del realismo socialista? In proposito così scrive Fallot:

”Nella società socialista e quindi comunista, la questione non si porrà poiché l’oggetto fabbricato non esisterà più come merce ma sarà prodotto direttamente in rapporto ai bisogni delle masse (e, d’altronde, ogni realizzazione scientifica e industriale trasformando i nostri bisogni, trasforma l’uomo). Si tratta dunque di rendere la produzione collettiva adeguata ai bisogni dei lavoratori, ma si tratta anche di adeguare i bisogni alle possibilità della produzione collettiva”. (36)


Il nocciolo della questione torna incessantemente ad essere lo sviluppo della produzione, come presupposto, ma anche come vincolo, alla realizzazione dei bisogni, secondo un’etica socialista che proietta nel futuro l’approssimazione del benessere e della felicità per tutti. Ciò avviene a scapito della dialettica reale contenuta nell’accezione stessa nel tempo e nello spazio, ma soprattutto perché esso è rivolto costantemente alla modificazione del presente e male si adatta dunque a essere fissato nel futuro in senso “messianico”.


Non è quindi la contrapposizione tra l’oggi (il capitalismo), e il domani (il comunismo), che di per sè è dialettica, quanto la tendenza a realizzare nel presente gli scopi del futuro, non solo per renderlo quanto più vicino possibile nel tempo, ma per colmare il vuoto dell’attesa con l’adeguamento continuo dell’azione di ricerca, verso la liberazione totale dell’uomo dai vincoli della riproduzione sociale.


Da questo punto di vista la qualificazione dei bisogni in senso comunista si realizza quanto e come il comunismo stesso, (dinamicamente e dialetticamente), modifica, nell’insieme della realtà, anche i bisogni.

“Nella società senza classi l’unità fine-mezzo, lavoro in atto e prodotto del lavoro, sarà resa possibile dal fatto che la considerazione del “per chi”, dell’uomo come lavoratore prenderà il posto dominante. (….). La necessità di diminuire il carico del lavoro dovrà avere la precedenza su quella della moltiplicazione dei prodotti. Si avrà così il criterio della produzione e dei suoi eccessi, la regola che permette di scegliere tra il produrre e il non produrre. L’esigenza finale (e in qualche modo assoluta) del “per chi” è quella dell’ozio totale, vale a dire non l’assenza di lavoro, ma di lavoro parcellizzato perché solo quello non parcellizzato soddisfa questo bisogno essenziale di lavorare senza essere un’appendice dello strumento scientifico del lavoro e un meccanismo della produzione. In una società senza classi i bisogni non saranno più ricondotti alle condizioni biologiche dell’uomo. Non si dovrà considerare i bisogni come dati una volta per tutte, ma che ogni nuova produzione implica la loro trasformazione dialettica come una equazione mutevole e da risolvere come tale. Non si potrà rifiutare una invenzione secondo i criteri del materialismo-dialettico, per la sola ragione che essa non corrisponde agli antichi bisogni, naturali e necessari. L’antichità del bisogno non giustifica più della sua novità l’apparizione e la moltiplicazione di un certo tipo di oggetto o di effetto. Non si potrà dunque né ricusare in anticipo le invenzioni nuove né farle precedere ai bisogni delle masse, ma occorrerà considerare questi bisogni nella loro possibile evoluzione di fronte alle invenzioni che li plasmano e che cambiano l’uomo”. (37)


Tutto ciò a condizione che la dialettica insita in questo procedere sia esente da dogmi scientifici e da condizionamenti temporali. In altre parole, è inutile discutere se lo sviluppo delle forze produttive è la condizione determinante nel passaggio dal capitalismo al comunismo, quando non si è nemmeno in grado di uscire dalla contraddizione rappresentata dal fatto che, se da una parte questo sviluppo è presupposto della liberazione umana, dall’altra è vincolo per la conservazione della natura: figuriamoci quando addirittura questo vincolo, anche se in forma di condizionamento, è esteso alla soddisfazione dei bisogni umani.


D’altra parte conservare la natura così com’è non vuol dire ancora niente (né troveremo nei classici del marxismo soluzioni finali al problema natura-uomo), se non si relativizza il sistema naturale (non il concetto della natura), con il sistema sociale, anche ammesso che questo sia fatto a “misura d’uomo”. Si tratta però di assumere come sistema di riferimento non la “natura”, ma il suo metabolismo, adeguandovi in forma dialettica il metabolismo sociale.


Solo così è possibile dare continuità all’azione di ricerca e di edificazione dell’uomo nuovo comunista, oltre l’obiettivo della ricomposizione del “lacerato rapporto uomo-natura”.


Sotto questo aspetto, una critica della merce ha senso solo sul piano sociale, ma rischia di rinchiudersi su se stessa se non si accompagna alla critica di un “sistema di valori” come quello capitalistico, dove gi aspetti quantitativi prevalgono su quelli qualitativi e fra questi, buoni ultimi, ci sono la vita dell’uomo e l’ambiente naturale.

“A ogni passo ci viene ricordato che noi non dominiamo la natura allo stesso modo di un conquistatore che ha asservito un popolo straniero, che noi non la dominiamo come estranei ad essa, ma che le apparteniamo attraverso la carne, il sangue e il cervello e noi viviamo nel suo seno”. (38)


Questo tremendo ammonimento di Engels non deve lasciarci indifferenti, ma neanche possiamo restare passivi di fronte al compito, altrettanto imperativo, di “distruggere lo stato di cose presenti”; opera che per altri versi il capitalismo sta compiendo, con assoluta indifferenza, verso l’uomo e la natura per cui, a maggior ragione, occorre strappare dalle sue mani il dominio della materia (la Natura) e dello spazio (la Società), ma soprattutto il dominio del tempo (la Politica).


Per far questo occorre però ricostituire l’immagine e il senso della politica, soprattutto se intesa come idea forza che mutua il futuro già nella trasformazione del presente, ripudiando l’assolutizzazione dei rapporti tra uomini e cose, tra dovere e piacere, tra felicità e virtù:

”Non è una regola generale, ma certo estremamente diffusa che, contro l’affermazione del principio del piacere come motivazione e molla della politica, si erga il virtuismo delle organizzazioni. Non ce se ne può stupire: l’idea stessa di organizzazione è legata a un principio di responsabilità, a un dover-essere. (…) La espressione di metter fine all’”ordine di cose esistente”, diventava un sistema di valori proiettato al futuro: la virtù-responsabilità sostituiva il piacere-felicità anche come culmine, fine, destino dell’intero processo storico”. (39)


Se queste sono le amare considerazioni di una parte della sinistra europea, ormai logorata da cinquant’anni di determinismo culturale e politico, non meno amare sono quelle che si ricavano dai frantumi del “sogno americano”, per tanto tempo rincorso anche dalla sinistra europea:

”La felicità, nota Alain Finkielgrult in una corrispondenza da New York, è oggi un’idea medica. Non vi è miseria se non patologica. Non è dunque con la militanza, né, a fortiori, votando con puntualità ad ogni elezione, che si sviluppa la propria personalità, ma guarendo dai propri blocchi e dalle proprie nevrosi. Una nuova specie di integralismo invade la società americana: l’integralismo psicologico, cioè l’aspirazione a risolvere per mezzo delle terapie dell’anima tutti i problemi individuali e sociali. Per una maggioranza di americani la politica non fa parte della vita”. (40)


L’antagonismo al potere esige dunque forme di espressione diverse, che a partire dal rapporto teoria-strumenti di comunicazione-azione politica, liberino la politica dalla dimensione separata in cui tutt’ora è ristretta:


  • la dimensione temporale della politica, ovvero il “tempo” della politica non è scandito dalla successione cronologica degli eventi (ciò che è già passato, ciò che è, ciò che deve venire), ma dall’attesa -passiva o attiva- dell’evento;


  • la dimensione più adatta alla politica, è una dimensione spazio-temporale unica, non separata, in cui interagiscono lo spazio-sociale e il tempo-politico, intesi come oggettività e soggettività relative a una realtà in continua evoluzione;


  • la relatività spazio-temporale è quindi una caratteristica dell’azione politica, teorica e pratica, che annulla l’assolutizzazione del rapporto soggetto-oggetto, al di fuori della sua dimensione primitiva di rapporto di produzione sociale;


  • la finzione del tempo cronologico, trasposta dal potere nei rapporti sociali, offusca la dimensione spazio-temporale della politica e fa di questi rapporti dei rapporti sociali dominanti, anche al di fuori del dominio insito nella produzione stessa.


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Perché l’attesa non sia solo speranza, né ricerca del tempo perduto, occorre che gli eventi, passati e futuri, siano finalmente liberi da una meccanica cognizione del tempo; solo allora potremo, anche noi, liberare la nostra esistenza dall’attesa di realizzare le nostre aspirazioni.


Novembre 1982

(1) V.I.Lenin, Materialismo ed empiriocriticismo – Editori Riuniti, 1970.

(2) Ibidem

(3) K.Marx, Grundrisse der Kritik der politischen ockonomie, trad. it.“Lineamenti fondamentali della critica dell’economica politica – La Nuova Italia, 1968.

(4) Ibidem

(5) Ibidem

(6) Ibidem

(7) Ibidem

(8) K.Marx, il capitale, I° Volume, Editori Riuniti 1966

(9) G.Kay, Sviluppo e sottosviluppo, Feltrinelli 1976.

(10);(11) Ibidem

(12)K.Marx, Grundrisse…

(13) Ibidem

(14) E.Mandel, La formazione del pensiero economico di K.Marx, Universale Laterza 1971.

(15) L.Althusser, Lenin e la filosofia, Jaca Book, 1969 (citazione ripresa da E.Bizakis in op.cit.).

(16) Ibidem

(17) E.Bizakis, Fisica contemporanea e materialismo dialettico, Ed. Lavoro Liberato, 1974

(18) Ibidem

(19) G.Klaus, Kibernetik in philosophischer Sicht 1965 (citazione ripresa da E. Mandel in op.cit.).

(20) F.Engels, Dialettica della natura, Editori Riuniti, 1971.

(21) R.Thom, Parabole e catastrofi, Il saggiatore, 1971.

(22) C.Durand, le travail enchainè, 1978 (citaz. Ripresa da La trappola della scienza di Dario Paccino, Ed. La salamandra, 1979).

(23) R.Thom, op.cit.

(24) S.Timpanaro, Sul materialismo, Nistri Lischi, 1970.

(25) E.Fiorani, Nota del collettivo editoriale al libro di E.Bizakis (op.cit).

(26) K.Marx, Grundrisse…

(27) Marx-Engels, L’ideologia tedesca, prima parte, Editori Riuniti 1967.

(28) K.Marx, il capitale, III° libro, Editori Riuniti 1966.

(29) Ibidem

(30) Marx-Engels, L’ideologia tedesca.

(31) K.Marx, il capitale, III° libro

(32) G.Lukacs, Storia e coscienza di classe, Sugar 1967, (citaz. Ripresa da E.Mandel in op.cit.).

(33) B.F.Skinner, Beyond freedom and dignity, (citaz. Ripresa da una relazione di Tomas Maldonado al Convegno Uomo-natura-società 1971).

(34) G.Kay, op.cit..

(35) K.Marx, Manoscritti economici e filosofici del 1844, Einaudi 1968.

(36) J.Fallot, Sfruttamento, inquinamento, guerra – Bertani 1976.

(37) Ibidem

(38) F.Engels, Dialettica della natura, -Editori Riuniti, 1971

(39) A.Asor Rosa, La politica e la felicità, in “Laboratorio politico n.2”, Einaudi 1981.

(40) Citazione tratta da la trappola della scienza, op.cit..

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